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“Una separazione”: l’impossibile sguardo della verità

di Riccardo Tavani

Il dramma è subito posto, già nella prima inquadratura e nel primo brandello di dialogo. Simin e Nader, moglie e marito, sono in tribunale davanti a un giudice civile: la donna chiede di divorziare perché l’uomo non vuole lasciare con lei l’Iran. Hanno ottenuto entrambi il permesso di espatriare con la loro figlia undicenne Termeh, ma Nader non solo non vuole seguirla ma le nega il permesso di andare via con la ragazza.

Ma Simin non vuole assolutamente che sua figlia cresca in Iran, e così se Nader non la seguirà all’estero e non lascerà che la figlia vada con la madre, sarà Simin ad abbandonare lui. “Perché – le chiede il giudice – non vuole che sua figlia cresca in Iran, signora? Si rende conto della gravità di ciò che dice?”.

La domanda rimane in sospeso, e anche l’udienza è aggiornata. Appena a casa la donna abbandona immediatamente la casa del marito, che rimarrà solo con la figlia adolescente e il vecchio padre malato di Alzheimer, il quale neanche lo riconosce più. La malattia del padre è la ragione che Nader oppone davanti al giudice per non abbandonare il paese. Senza più Simin in casa, l’uomo deve subito trovare una badante che accudisca e sorvegli il padre mentre lui è al lavoro in banca e Termeh a scuola.

Come già nel precedente film di Asghar Farhadi, About Ellly, il tema della “doppia verità” si innesca fin dall’inizio in modo prima lieve, quasi trascurabile, per aggrovigliarsi poi in maniera sempre più drammatica, inestricabile e con tragiche conseguenze. Razieh, la donna che faceva soltanto le pulizie, e che ora Nader convince a diventare la badante del padre, deve adottare una sua verità di fronte al marito e all’intera società.

Perché lei non può stare da sola in casa di un uomo in cui non c’è più la moglie, e non potrebbe neanche lavare le parti intime di un altro uomo che se l’è fatta addosso, sebbene ultrasettantenne e colpito dall’Alzheimer. Così questo conduce anche Nader ad adottare una verità ufficiale davanti al marito della donna, in una catena di successive complicazioni che mettono a nudo il vero volto di una società fondata interamente sulla doppia verità.

È una questione che ha radici profonde nell’Islam, dai tempi di Averroè, il grande filosofo e traduttore di Aristotele, nato a Cordova nel 1126 e morto 70 anni dopo in esilio a Marrakesh, per l’intolleranza religiosa che si opponeva al suo pensiero.

Non che Averroè avesse mai teorizzato una doppia verità, una buona per la fede, l’altra per la ragione, però, di fatto dovette fare i conti con essa e non solo in vita. In vita per attenuare l’impatto della sua opera filosofica e scientifica, in quanto interpretata come contrapposizione e negazione della verità coranica; dopo la morte perché molti suoi libri furono distrutti e la stessa chiesa cattolica lo tenne in grande sospetto e lo coinvolse nella più generale condanna dell’aristotelismo, almeno fino a quando San Tommaso, circa un secolo dopo, non rivalutò appieno l’insegnamento di Aristotele.

Lo stesso giudice civile, laico, della prima scena si trova ora a dipanare la matassa molto più intricata e amara di una semplice causa di divorzio, nella quale la badante ha perso il bambino che aspettava, cadendo giù dalle scale. A pagare, sopratutto, il regime della doppia verità sono le donne e le bambine, le adolescenti come Termeh, in particolare.

La ragazza assiste prima allibita alla esibizione della doppia verità da parte del padre, poi ne rimane direttamente coinvolta, dovendo testimoniare. La scena finale, con i corridoi del tribunale percorsi avanti e indietro da ragazzi di ogni età, mentre Termeh, davanti al giudice, piange perché non sa cosa rispondere è invece la risposta alla scena iniziale: quella del perché la madre non voleva che sua figlia crescesse in quel paese.