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C'è una certa Giuliana in tivvù. Addio alla Berlinguer, regista di Nero Wolfe

di Ugo G. Caruso *

La solita, colpevole e ingiustificata disattenzione dei giornali ha accompagnato la morte di Giuliana Berlinguer, a dispetto pure del cognome illustre. Neanche poche righe sui quotidiani più importanti per un'autrice che fu tra le poche donne registe delle stagioni auree ed indimenticabili della nostra televisione, prima del micidiale cambio di segno che a partire dalla metà degli anni settanta trasformò vieppiù lo schermo domestico nel principale responsabile del tracollo antropologico-culturale del paese.

Poche, scarne note anche nel web riferiscono dell'anno di nascita,il 1933, del luogo, Mantova, degli studi all'Accademia d'arte drammatica a Roma, del matrimonio con Giovanni Berlinguer senza dirci quale fosse il suo cognome da nubile, descrivendo il suo lavoro televisivo con definizioni odierne dunque improprie quale miniserie in luogo di sceneggiato o di adattamento per il piccolo schermo di un testo teatrale. Siamo indignati ma non sorpresi di tanta sciattezza. Accade regolarmente. Fu così pure per attori come Renato De Carmine o Raoul Grassilli, scomparsi di recente, protagonisti della scena teatrale e un tempo volti popolarissimi di sceneggiati e originali televisivi che contribuirono alla crescita civile e culturale, quando non all'alfabetizzazione degli italiani attraverso un invito costante e accattivante alla lettura, al recupero di un'ideale biblioteca della letteratura universale.

Giuliana Berlinguer si era fatta apprezzare in Rai a partire dal 1965 con La locanda, trasmessa dalla Tv dei ragazzi nella consueta fascia pomeridiana, palestra allora delle poche donne che facevano il suo stesso mestiere, come Alda "Dada" Grimaldi, autrice di due capolavori rimasti per sempre nella nostra memoria affettiva ma, ahinoi, non nelle teche Rai, come La squadra di stoppa e le varie serie di Giovanna, la nonna del Corsaro nero. Poi nel '66 si confermò con Boris Godunov, la trasposizione del dramma di Alexander Puskin, interpretato da un cast d'attori prestigioso: Tino Carraro, Luigi Vannucchi, Giuliana Lojodice, Turi Ferro e Franco Sportelli.

Il suo nome diventerà familiare alla platea televisiva nel 1969 con la prima serie di Nero Wolfe, cui diede corpo, è il caso di dire, Tino Buazzelli con un'interpretazione raffinata e ricca di sfumature psicologiche contrappuntato da un Paolo Ferrari perfetto nel ruolo di Archie Goodwin, ironico anche nelle vesti di narratore della puntata precedente, come usava allora. L'intesa tra i due era magnifica e i loro diverbi costituivano la parte più gustosa della messa in scena, spesso arricchita dall'aggiunta di Pupo De Luca e Renzo Palmer, comprimari della serie. Come Il Circolo Pickwick di Gregoretti nel '68 o il Jekill di Albertazzi in quello stesso anno, il Nero Wolfe della Berlinguer fu molto innovativo rispetto agli standard degli sceneggiati del tempo, al punto da attirarsi l'accusa di intellettualismo. Ovviamente di sinistra, dato il nome. Colpiva in effetti il contrasto tra gli ambienti sofisticati newyorkesi descritti da Rex Stout nei suoi romanzi (e riprodotti in studio dalla Berlinguer e dai suoi collaboratori, Belisario Randone, Vladimiro Cajoli, Margherita Cattaneo, Edoardo Anton) e gli scenari contemporanei scelti per i titoli di coda girati in esterni: barboni sdraiati agli angoli degli slums, neri, anzi "negri" pigramente aggirantesi per le periferie degradate tra falò e cumuli di immondizie come non ce li aveva mostrati nemmeno il cinema americano prima della moda blaxploitation o di certi noir urbani degli anni settanta. A sottolineare l'atmosfera metropolitana desolata e sofferente erano state scelte le note lancinanti e un po' free della tromba di Nunzio Rotondo, forse il miglior jazzista italiano di quegli anni. Vi si coglievano accenti molto critici rispetto all'America e alle sperequazioni sociali del paese capitalista per antonomasia. Altrettanto inconsueto era il commento elettronico di Romolo Grano per le scene girate in interni che davano un tocco di umorismo grottesco alla rappresentazione. La serie proseguì fino al 1971 contribuendo non poco al rilancio editoriale del personaggio di Stout riprodotto con le fattezze di Buazzelli sulle copertine dei tipi Mondadori, come era accaduto qualche anno prima per il Maigret di Gino Cervi. Quel Nero Wolfe è stato poi più volte replicato e riproposto prima in vhs e poi in dvd e resta un evergreen del repertorio Rai, un classico vanamente imitato proprio di recente con risultati ridicoli da una serie inverosimilmente ambientata in Italia, prodotta dalla Casanova e da Rai Fiction, trasmessa da Rai 1 da una dirigenza immemore del valore del suo patrimonio storico.

La stessa sorte, peraltro, è toccata a tanti sciagurati "remake" televisivi in forma di fiction, da La cittadella a Luisa Sanfelice, da La freccia nera ad Antonio Meucci fino a La baronessa di Carini ecc., di cui nessuno, anche per i tanti mutamenti dell'estetica televisiva, può reggere il confronto con l'originale. In seguito Giuliana Berlinguer realizzò altri lavori televisivi, da Ragazzo cercasi (1974) a L'esercito di Scipione (1977) da Episodi della vita di un uomo (1980) a due film collettivi, Un altro mondo è possibile (2001) e Lettere dalla Palestina (2002). Alternando poi il lavoro di scrittrice a quello di regista, nel 1983 presentò a Venezia Il disertore tratto dal romanzo di Giuseppe Dessì e in quell'occasione ebbi modo di scambiare qualche parola con lei sulla Rai dei suoi anni già lontana e incomparabile con quella del tempo. A lei va il saluto grato di tutti i telesaudadisti e di quanti, non credo solo per il gusto dei “bei tempi andati”, colgono un forte nesso tra quella televisione e un' Italia migliore di quella odierna.

* fondatore del Movimento Telesaudadista

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