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Il tumulto di Dahlia Chan, graphic poem sul filo dell’abisso di un ventaglio

Riccardo Tavani

A un certo punto, non ricordo bene quando, ma una sera di qualche anno fa, all’improvviso, il pittore e maestro d’arte Gualtiero Savelli mi ha chiesto un testo che andasse bene per un fumetto astratto, non figurativo. “Un fumetto astratto, ma che roba è?!?”, ho risposto con strascicata lentezza all’istantaneità di quella rapinosa, lampeggiante richiesta. “Una roba che non se ne trova molta in giro”, fu il quasi afasico responso. “E come si fa?” chiesi, strascinando e allungando al massimo il tempuscolo di quei quattro pur minimi vocaboli, nella speranza mi venisse in mente qualcosa, mentre li pronunciavo. “Beh, tipo… tu pensa a un ritmo sgangherato e non a un senso pre-appiccicato”.

Domandai a gente che bazzicava con il disegno e la scrittura di fumetti. Niente, nessuno mi dava lumi, anzi, l’accecamento iniziale progrediva verso l’abisso primordiale.

Pochi sanno che il filosofo del linguaggio Paolo Virno, in un precedente periodo della sua frastagliata esistenza, si è dedicato (con successo) anche alla sceneggiatura di fumetti. La sinteticità chiara e fulminante di molte espressioni contenute nei suoi testi gli deriva – mi ha confessato – dal lungo, paziente esercizio praticato quotidianamente per stringare in un numero minimo di parole dialoghi e didascalie descrittive. Sì, ma fumetti classici, quelli con nuvolette, strisce, avventure, inseguimenti di auto o cavalli, baci, spari, cazzotti. Roba molto concreta pur nell’astrazione narrativa di nuvolette e disegni. Qui, invece, si trattava di passare dall’astratto al concreto. Questo, alla fine, fu il laconico verdetto dell’attuale docente di Filosofia del Linguaggio all’Università Roma 3: “Ti do una sola regola, astratto o concreto che sia il fumetto: le didascalie vanno scritte come un accompagnamento musicale all’acustica di parole baci spari e cazzotti”.

Ma un fumetto con grafica astratta ha nuvolette di dialogo o di reconditi pensieri, strisce, vignette? “Resta un problema aperto”, sentenziò Savelli. “È un problema del tutto chiuso – contro cantarono gli esperti fumettari –: quella roba astrattista voi due non la farete mai in concreto”.

Così, tra deliranti ritmi e sfondi musicali, cominciò uno strepitante tranciar e inviar via mail di pezzi, pezzetti, spezzoni di frasi, larve di parole ritmicamente scardinate, s–poeticamente tumultuanti, alla ricerca di segmentazioni, incrociature, crocefissioni, assestate insensatezze o dissestati sterrazzamenti narrativi… Io mi ci attorcigliavo come dentro i cavalli di frisia di una trincea. Il maestro usava una trinciatrice da catena e lucchetto per scartare, approvare, tagliando tutto e mettendo da parte solo qualche mezzo inservibile anello. Intanto lui intersecava linee, curve, righettature, regressi di nero, lamettate di bianco con la punta inesorabile dei suoi rapidograph intinti di china e sapienzale follia.

Così cominciò a stagliarsi un treno, un ventaglio, un nome di fiore in carne di donna, una rivolta, un tumulto d’efferato amore in un albergo vicino alla stazione di una città fracassante…

Il resto è un pugno di parole sferrate all’orecchio della coscienza, frammenti grafici frammisti di equilibrio e caos lanciati negli occhi del veggente e raccolti in uno sguardo unico nella pagina finale.

Il tutto disseminato in una plaquette poetica, libriccino d’arte, sperimentale graphic poem. Dissennatamente autoprodotto, elegantemente stampato, invisibilmente distribuito, in poche introvabili ma eterne copie, solo (per ora) presso la Libreria Fahrenheit 451 di Campo de Fiori e l’edicola di Piazza Farnese a Roma.

A ottobre pubblica presentazione.

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