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Addio, Lucio. Quando Dalla ebbe il presagio della sua morte.

Di Ugo G. Caruso

Paff… Bum. Qualcosa ha ceduto all’improvviso e Lucio Dalla anzitempo ci ha lasciato. Sempre più soli, si affretteranno a scrivere i coccodrillisti di professione, stavolta alquanto spiazzati anche perché è innegabilmente vero. Nei tanti necrologi celebreranno l’ultimo Dalla, quello più ecumenico, nazional-popolare, meno urticante e insolito, quello che piaceva proprio a tutti o quasi. Io l’ ho amato molto, ma non tutto. Qui vorrei ricordare un altro Dalla, quella sorta di extraterrestre bolognese, piccolo, barbuto, villoso, coperto abitualmente da coppola o zuccotto che sovente faceva da guastatore nella televisione in bianco e nero. Lucio Dalla ha accompagnato la vita della mia generazione segnandola in modo profondo, proprio come l’altro Lucio, Battisti, scomparso ancora più precocemente. Entrambi innovativi, dirompenti, unici, diversissimi tra loro, accomunati forse soltanto dalla passione per la musica nera, hanno cambiato per sempre la canzone italiana. Dalla era però più bizzarro e provocatorio.

Aveva esordito sotto l’ala protettiva di Gino Paoli, un altro cantautore inviso al pubblico più tradizionalista. I suoi primi 45 giri -L’ora di piangere, Paff… Bum, Lucio dove vai, Quand’ ero soldato, Bisogna saper perdere- tutti registrati per l’etichetta ARC , la linea sperimentale della RCA, avevano portato una ventata di aria nuova nel panorama della musica leggera italiana. Ci vorrà il 1970 perché la RCA decida di portarlo in prima squadra. Frattanto c’erano state tante cose. Personalmente ricordo Dalla in tivvù scandalizzare gli adulti con il suo canto scat, apparire in veste di comprimario dei divi coevi della canzonetta in musicarelli come “Quando dico che ti amo” o in panni da cowboy in “Per un pugno di canzoni” o ancora suonare il clarinetto insieme con i Flippers in stile jazz band sul tetto di un torpedone in giro per Roma in un carosello diretto dai fratelli Taviani nel ’65 per le camice Dinamic.

Fu proprio in quell’occasione che conobbe i due registi di San Miniato che lo vollero l’anno successivo insieme a Ferruccio De Ceresa, Pierpaolo Capponi, Giulio Brogi e Giorgio Arlorio tra gli interpreti di quello che forse io solo ritengo essere il loro film migliore, “Sovversivi” (1966), certamente uno dei titoli più interessanti del cinema italiano degli anni ’60. Ma soprattutto gli sono grato per aver composto “Fumetto”, la sigla de “Gli eroi di cartone”, memorabile programma in onda nella Tv dei ragazzi quando i comics, ben lungi dal diventare materia di insegnamento accademico, erano avversati compattamente da genitori e insegnanti.
C’è poi un altro Dalla, quello che inaugura i suoi anni ’70 con due apparizioni sanremesi di grande impatto: la prima con “4 marzo 1943” nel ’71, accompagnata dalle solite polemiche sulla censura che aveva preteso di sostituire il titolo originale, “Gesù bambino”, con la data di nascita del cantautore e la seconda nel ’72 che segna l’inizio della collaborazione con Rosalino Cellamare, non ancora Ron, con “Piazza Grande”, originale fado all’italiana. Per la prima volta si parla di ragazze madri e di barboni, figure dissonanti con la cornice grondante di fiori e melensaggini quale Sanremo appare sempre più dopo la morte di Luigi Tenco.
A precedere questi due successi c’era già stata un’altra bella canzone, ariosa, effervescente, ondulata, un pò alla Neil Diamond, “Occhi di ragazza”, scritta per Gianni Morandi. Alle collaborazioni con Bardotti e Baldazzi seguirà quella con Paola Pallottino, con cui Dalla firmerà una serie di successi che gli consentiranno di ritagliarsi un percorso personalissimo e parallelo rispetto ai cantautori più engagé in voga nel periodo, come De Andrè, i suoi concittadini bolognesi Guccini e Lolli e Francesco De Gregori, che lo avrebbe atteso alla fine del decennio per la fortunata collaborazione discografica che porterà alla trionfale tournée di Banana Republic.

La giovinezza di tutti noi è inscindibilmente legata alla sua produzione realizzata prima con il poeta Roberto Roversi (Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Automobili) e poi proseguita da solo con album firmati semplicemente con il suo nome, i cui brani ricordiamo tutti a memoria ( L’anno che verrà, Anna e Marco, Milano, Stella di mare, Futura, etc.). Quando alla fine degli anni ’80 la creatività sembrava un po’ appannata, un’altra collaborazione gli ridiede linfa vitale, quella con il vecchio amico e confratello di fede felsinea, l’eterno ragazzo Gianni Morandi.

Ho cominciato a perdere di vista Lucio Dalla quando ormai era diventata la star celebrata in tutto il mondo attraverso Caruso, ritenuta il suo capolavoro, poi riverberata da Luciano Pavarotti nei grandi teatri da una sponda all’altra dell’oceano, quando i suoi motivi sempre più orecchiabili echeggiavano dalle rumorose autoradio di un’Italia divenuta sbracata, omologata, appiattita e di bocca buona. Poi, ad un tratto una notte, ascoltando su Radio1 il programma Brasil, venni a sapere di un episodio davvero straordinario che lo riguardava. Dalla, noto in Brasile quale autore di “Gesù bambino”, portata al successo da Cico Buarque de Hollanda, vero e proprio poeta nazionale conosciuto ai tempi della comunità creativa di Mentana, era stato invitato ad un grande raduno musicale svoltosi nello stadio Maracanà o in posto di identiche, immense dimensioni, non ricordo bene. Ciò che non sapeva è che avrebbe dovuto esibirsi di giorno quando il termometro di Rio segnava oltre 30°, proprio come il film di Nelson Pereira dos Santos.
Il cantautore italiano, spaventato da quella esperienza per lui inedita si sentì mancare, ebbe un attacco di panico temendo di morire sulla scena, qualcosa di simile a un presagio di quello che sarebbe potuto accadergli nel corso della sua recente tournée di Montreaux . A risolvere la situazione intervenne il grande musicista Ivan Lins che lo confortò, lo tranquillizzò e gli assicurò che la sterminata platea lo attendeva entusiasticamente. Dalla prese tempo, le gambe non gli reggevano, di andare sul palco non se la sentiva proprio. Allora Ivan Lins andò sul palco, scaldò la platea incitandola ad applaudire l’illustre ospite italiano. Un attimo dopo, quando questi si risolse ad uscire, vide una folla mai vista ondeggiare con l’accendino in mano sulle note di “… ah felicità ... su quale treno della notte viaggerai …“.
Dalla rimase sbalordito ed estasiato e dopo aver abbracciato Lins diede vita ad una delle sue performance più indimenticabili. A raccontare l’episodio fu lui stesso, dandomi i brividi e facendomi ritrovare con un leggero senso di colpa il cantautore che per tanto tempo avevo ammirato e che legavo come tanti ad alcuni dei momenti più belli della mia vita.

Nato di marzo, in marzo ci ha lasciato. So già che domenica 4, giorno del suo genetliaco, riascolterò tutti i suoi vecchi dischi. Agli esordi si interrogava su se stesso con Lucio dove vai. Adesso ci piacerebbe immaginarlo in viaggio su quel treno della notte in compagnia di quella felicità che ci ha regalato generosamente con le sue canzoni.

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