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L'Italia che sta al Valle

La parte invisibile

“Bisogna scagliarsi contro le vittime”, diceva Artaud non molto tempo fa, nel secolo precedente e lontano. In vari modi, però più subdolamente che apertamente, questo è stato fatto e ora è venuto il momento di chiedersi come sta la democrazia, lei che ha a che fare più con i cominciamenti dell’uomo che con la manutenzione dei suoi effetti. Qualcuno diceva che, in qualche modo, gli uomini, all’inizio, sono sempre più democratici, più interessati a condividere le cose che scoprono o che raggiungono e poi, col tempo, si lasciano prendere dalle paure e dagli egoismi. Il tempo, dunque, sarebbe la prima causa del fallimento umano. Così, in questa nostra epoca, vittima inutile, la democrazia osserva il suo aguzzino sdraiata sul letto, supplichevole e lasciva, come se lo specchiamento potesse ancora funzionare, mentre l’uomo, invece, va avanti e indietro nella stanza non avendo il coraggio di fermarsi e guardarla negli occhi, non avendo la forza di portarla a curarsi, non sapendo che fare con questo corpo così giovane e così vecchio.

Per me il secolo novecento finiva con l’ammonimento di Kantor a “tutto ricordare e tutto dimenticare” e con il silenzio di Beckett. Il resto mi sembrava una festa, non tanto, sulle macerie, che ballare nella catastrofe è opera sana, ma un matrimonio finto col tempo prossimo, come se il secolo nuovo dovesse inebriarci con il sangue fresco di giovinetta o giovinetto, secondo i gusti.

E’ passato del tempo dalla fine del novecento e la stanchezza di questo “colosso” ha prodotto confusione. Altro che festino dionisiaco con il nuovo, le ginocchia molli e la testa pesante hanno lasciato spazio prima all’illusione e poi alla paura.

Eppure la pubblicità, che non è soltanto quella del mercato, continua a celebrare la spinta di un paesaggio con figure… che evocano sempre meno.

Ma scrivo per commentare gli interventi di Fofi e Raimo e la premessa, lunga e forse inutile, finisce qui. Se ho parlato di democrazia è però non tanto perché il suo stato di salute è fondamentale per qualsiasi discussione sociale ma perché più che la partecipazione o il contributo critico, credo che la democrazia necessiti soprattutto di verifiche: uno può dire o fare qualsiasi cosa ma una volta raggiunto un qualsivoglia potere deve sottoporre il suo operato a dei controlli effettivi. E se il potere non è solo quello politico ma anche quello culturale, sportivo, economico, ecc., non è un bene, insomma, che tutta intera la classe dirigente si sottoponga agli esami? Dunque fa bene Raimo ad invitare Fofi al Valle, per un confronto aperto e fertile. La sua non è solo educazione ma anche rispetto per un “padre” difficile e inquieto che si sarebbe, però, adoperato non solo per insegnare alle nuove generazioni quanto, addirittura, per esserne un suo maieuta attento.

Un maestro che, secondo Raimo, è stato (è) un riferimento fondamentale per molti avendo il merito di “attivare in chi si occupa di politica, di arte, di educazione, di sociale, in Italia un dispositivo di autocritica e un desiderio di confronto, attraverso i libri che ci hai consigliato, attraverso le riviste, attraverso quello che hai seminato, attraverso l’esempio”.

Mi piacerebbe sapere se Fofi si ritrova in questo ritratto riconoscente. Lui che nelle sue invettive e osservazioni ha tentato di proporre uno sguardo asciutto e poco retorico.

Perché questo è il punto: come, giustamente, Fofi può e deve esprimere valutazioni su una generazione, sull’ambiente artistico italiano, anche gli artisti o intellettuali di diversa generazione devono esprimere valutazioni su di lui. In Italia, scrive Fofi, i “nostri artisti, critici, intellettuali e altri funzionari della cultura... parlano tutti molto bene e trafficano tutti molto male…”.

Uno dei comportamenti più diffusi in Italia, specie nell’ambiente culturale, è il parlare male delle persone solo in loro assenza. Mai di persona, pensando, al contrario, che un confronto franco e aperto possa essere costruttivo per tutti, diffondendo vitalità e lealtà nell’aria.

Così l’assenza di confronto regna sovrana finché esplode con la polemica che per quanto “salutare” rappresenta spesso una perdita di tempo: in una società con un basso senso comune delle cose è difficile ormai che una verifica possa non risultare una perdita di tempo, lasciando che il campo sia dominato dalla vanità e dalla relatività del “sentire”; tuttavia le verifiche devono servire proprio a questo, a ricostruire questo senso oggettivo, così importante anche in campo artistico.

Bisogna faticare certo, cosa che a pochi va in Italia, ma è necessaria questa ricostruzione.

Dunque vorrei anche io invitare Fofi ad una verifica. Ma non frequentando il Teatro Valle occupato, sia perché impegnato a lavorare, sia perché mi trovo un po’ a disagio con l’ambiente artistico italiano, per molte di quelle ragioni di cui scrive Fofi, lo invito ad una verifica “privata”.

Negli anni ho sentito parlare diverse volte Fofi e ho ammirato la sua incisività retorica.

Leggendolo, come si può non essere d’accordo con lui quando, a proposito del finanziamento pubblico alla cultura scrive: “E’ forse migliorato l’italico livello culturale grazie a questo scialo di allegri spettacoli e pensose conferenze, al contatto diretto con i famosi, merce essi stessi? E questo scialo è forse proceduto di pari passo con il bene comune della scuola pubblica, col miglioramento, per esempio, del livello culturale dei nostri insegnanti e il loro senso di responsabilità nei confronti dei discenti?

Fofi ha ragione: il sistema del sostegno pubblico in Italia ha creato molti più danni che vantaggi.

Questo perché è stato dato troppo spesso senza attenzione al merito (artistico e imprenditoriale), senza lungimiranza, ovvero reagendo se non addirittura anticipando i cambiamenti (come hanno fatto in dei momenti i francesi e i tedeschi) non solo del mercato dell’arte ma anche delle conseguenze “antropologiche” che la comunicazione televisiva portava nel tessuto sociale. E perché ha inseguito la logica dei grandi eventi, dei “nomi”, del marketing territoriale usando la cultura senza “liberarla” svuotando di senso, dunque, il suo stesso “impegno”, così come dimostra anche la storia recente (vedi la politica Vendoliana).

E ha ragione quando dice che le nuove generazioni si sono illuse nella finta possibilità, data anche dalle rivoluzioni tecnologiche, di potersi esprimere inglobando invece il conformismo del potere, la sua assenza di coraggio e di profondità, la sua vanità.

Così che viviamo un’epoca di spettacoli (tristi e inutili) e il potere dell’arte sembra svanito.

Ha ragione quindi Fofi, ma lui dov’era in questi anni mentre tutto questo accadeva?

A consigliare letture e a creare relazioni vitali, come scrive Raimo?

Forse. Ma nelle nostre azioni ciò che conta è l’anima con cui le facciamo, tanto che possiamo dire o fare qualcosa di molto preciso ma se “dentro”, le nostre “intenzioni” sono diverse, le conseguenze del nostro impegno saranno determinate soprattutto da questa parte “invisibile”.

Se ne può parlare di questo invisibile? Può appartenere a quella ricostruzione del senso comune di cui parlavo prima? Il privato può diventare pubblico? E il pubblico può occuparsi del privato?

Ho conosciuto personalmente Fofi e ci ho parlato più di una volta. E’ successo qualche anno fa, io ero più giovane ed acerbo. Ma quello di cui voglio parlare non è la delusione privata che ho vissuto frequentando questo intellettuale anche se è chiaro che le sensazioni ricevute e i comportamenti osservati, attraverso l’esperienza privata, sono la radice più importante di questa mia valutazione.

Se ne parlo pubblicamente non è tanto perché egli è un personaggio pubblico o perché fa delle analisi pubbliche quanto perché quella sua parte “invisibile” (almeno una parte di quella parte) è emblematicamente rappresentativa non solo dell’animo della sua generazione ma specificatamente di atteggiamenti e caratteristiche della personalità che sono molto diffusi, specie nell’ambiente intellettuale italiano di sinistra.

Quali sono? E’ presto detto: cinismo, presunzione (che è cosa diversa dall’essere sicuri di sé), vanità e soprattutto incapacità o disinteresse all’ascolto.

L’ascolto per me è la cosa fondamentale. L’altro giorno parlavo con una mia amica polacca che vive a Los Angeles e mi diceva che lì è una follia ormai, che tu parli di qualcosa e la gente non ascolta proprio più, risponde tutt’altro. Si, la situazione è grave. E’ come se fosse venuta meno la base di tutto: paragonando gli uomini a delle case, è come se fossimo senza fondamenta. Perché l’ascolto anche se ci “apre”, e dunque ci rende mutabili, è lo scheletro fondante, ciò che può permetterci di essere in vita, almeno come individui “autonomi”. Senza ascolto la vita non solo diventa lo spazio di solitudini che angosciosamente si sfiorano senza incontrarsi, ma perfino una temperatura insopportabile che ci inaridisce progressivamente fino alla secchezza e alla sparizione precoce.

Credo che tutti i nostri sforzi oggi dovrebbero andare nel ricostruire questo “muscolo”, questa abilità complessa e insieme semplice dell’ascolto. Non salvare l’ambiente, non pensare a nuove forme economiche, non salvare il welfare ma salvare l’ascolto.

Non ci può essere progresso, alcun percorso di vita senza di esso. Forse la felicità non è “cosa” per gli umani, come molti pensano, forse l’inquietudine è la sola condizione possibile ma se c’è ascolto, almeno, l’inquietudine resta sopportabile, se non addirittura utile e “gratificante”.

Nell’inquietudine troviamo il “peso”, il legame, la nostalgia di qualcosa di imponderabile, passata o futura non importa, che nella sua mancanza ci da senso solo se questa percezione riusciamo a raccontarla agli altri. Nell’era della comunicazione, invece, assurdamente, gli uomini stanno diventando soli sempre più.

Dunque a sentire Raimo, Fofi è un uomo capace di ascoltare, non soltanto il mondo nelle sue onde generali, ma gli individui, la loro preziosa e misteriosa complessità. Anzi, egli con il suo esempio è stato capace di stimolare ascolto, di generare vita, azioni responsabili e sensibili.

Forse. Ma io vorrei girare questo benevolo ritratto a Fofi e sapere se lui è a posto con la coscienza, come diceva Totò. E chiedendolo a lui, chiederlo a tutti noi.

“Do diritto di critica solo ai macchinisti” ebbe a dire una volta Carmelo Bene. Per me intendeva non tanto consegnare il diritto alla realtà delle cose, a chi nelle cose è presente e dà un contributo costruttivo (ci sono macchinisti che se ne fregano, si prostituiscono soltanto dando il “minimo” e dunque dare loro diritto sarebbe ideologico e finto) ma  porre l’accento sul fatto che un macchinista stando in teatro, dietro le quinte, ascolta, spia, osserva e dunque crea un materiale autentico per una valutazione. Quanto ha spiato, osservato con pazienza e rigore il critico Fofi, l’intellettuale Fofi, il magico Fofi? Quante volte è stato capace di fronte al cinismo e all’insensibilità, alla malafede del potere, di alzare veramente la voce, rifiutando di prostituirsi, di prestarsi al gioco vano della comunicazione culturale? E non tanto sulle pagine dei giornali. Quante volte… meglio smetterla qui! Tanto le domande le sa, le sappiamo tutti.

Finisco col dire solo una cosa: anche se sono d’accordo con Fofi nel condannare il sostegno pubblico così come è, posso dire che ho fatto da poco un film con soldi istituzionali ma, data l’assenza della loro verifica (se non quella meramente economica), mi sono sentito libero e ho fatto quello che volevo. Cinema indipendente, sento dire spesso, glorificando in un’aura tutta finta l’idea di una produzione “alternativa”. Eppure indipendente da che? Io voglio fare un cinema dipendente da molte cose, un cinema che una volta fatto, si sfa nell’ascolto. Aprendosi e chiudendosi ogni volta. Ciò di cui abbiamo bisogno sono vasi comunicanti, non visioni ideologiche per quanto perspicaci e intelligenti. Altrimenti ci resta il desiderio di uccidere i nostri padri. E a loro, di uccidere i figli. Una questione “naturale” forse, ma almeno che questo desiderio ci costringa ad interrogarci ancora, riportandoci verso quella densità che ci rende più umani, capaci di concepire, come Macbeth, che… “se tutto, una volta fatto, fosse finito... allora, su questo argine, potremmo pure giocarci il futuro. Ma noi aspettiamo... qui...  ancora un giudizio e non facciamo altro se non insegnare sangue, che una volta insegnato ci ritorna addosso. Questa giustizia dalla mano imparziale ci riporta alle labbra i nostri stessi veleni…”.

Paolo De Falco

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