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L’occhio in una mano e le tecniche del samurai

Conversazioni sul lavoro di Pippo Del Bono al Festival di Bobbio

di Giulio Gargia

Al Festival diretto da Marco Bellocchio – in corso per la 18esima volta a Bobbio, vicino Piacenza, fino al 31 agosto – irrompe la “Pippeide” come lo stesso Pippo Del Bono definisce il tris di film in programma in questi giorni, in cui è presente come autore, attore, regista o nelle tre vesti contemporaneamente.

Si parla delle sue discusse sperimentazioni visive, in cui smonta la grammatica del cinema grazie anche all’uso del cellulare, “un occhio in una mano“ che diventa per lui un prolungamento del corpo. Ma uno sguardo altrettanto stimolante, se non di più, è quello sul backstage in cui racconta come arriva a fare quello che fa, e snocciola gli elementi formativi della sua esperienza.

Nell’incontro avuto con i partecipanti al seminario di critica cinematografica che si è tenuto all’Auditorium dove ha sede il corso condotto da Ivan Moliterni, è venuto fuori, grazie anche al dialogo sul lavoro dell’attore con Augusto Sainati, ordinario di cinema all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, uno spaccato denso e suggestivo di come Pippo Del Bono costruisce i suoi lavori. E si parte sempre dalla pancia, anzi dalla digestione.

“Io dopo mangiato ho sempre un momento di crollo. Quando lavoravo su “Sangue” con Senzani, capitava che mi addormentavo nei passaggi clou dei suoi racconti, quando magari lui svelava pezzi di storia inedita delle BR. Questo per dire che per me è il corpo che conduce la mente, anche nel lavoro dell’attore sul set. Per me, la psicologia dell’attore è demenza, tutto il metodo d’immedesimazione mi lascia del tutto indifferente. Quelli che per girare i film sul carcere devono farsi 2 mesi di galera non li capisco. Non mi interessano. Non è una questione di finzione o verità. E’ un metodo di come ricerchi la verità di un’azione, se con il corpo o con la mente. Io lo faccio con il corpo, vengo da una formazione di anni di training per capire come l’immobilità o un movimento lentissimo possano essere teatrali, carpire l’attenzione. Ci sono alcuni che lo fanno in maniera naturale. Quando io metto Bobò in scena nella “Cavalleria Rusticana” al San Carlo, lui magari tutto quello che fa è che si versa un bicchiere di vino mentre tutt’intorno il coro canta, l’orchesta suona, si muovono i figuranti . Eppure il pubblico guarda lui . Lui – che è sordomuto, analfabeta, alto 1,49 – e alzando un bicchiere si prende l’attenzione della platea della “Cavalleria Rusticana”. E uno si chiede: perché? La risposta è che Bobò non è bravo, è straordinario. Nel senso letterale, cioè fuori dall’ordinario, mentre le messinscene delle opere liriche sono tutte uguali, alla Zeffirelli.

Le Monde lo ha definito “l’uomo sacro“ e anche “un solo figurante protagonista”. Perché i disabili (alcuni, non tutti) hanno i principi drammatici iscritti nel corpo. E io lo riconosco perché ho lavorato su quelli, sono rimbalzato da Grotowskji a Barba, all’Odin Teater, passando per Pina Bausch fino al teatro balinese e giapponese, al lavoro dei samurai.

Dall’esperienza orientale ho appreso le tecniche di controllo e consapevolezza del corpo, dai maestri europei la voglia di entrare in zone profonde dell’essere umano, di sentire con tutto il corpo. La capacità interpretativa viene dallo stare nell’azione, e non dalla psicologia. La vita è molto più grande delle sue rappresentazioni. Il lavoro dell’attore vissuto secondo i principi dominanti ti istupidisce, è anche pericoloso: vedete cos’è successo a Robin Williams (ma a tanti prima di lui) piegato prima dalla regole hollywoodiane che dalla sua malattia. Le tecniche dell’attore devono rendere saggi, non stupidi“.

Poi Del Bono parla dei suoi lavori in preparazione: un cortometraggio a Versailles (“ci danno quel luogo per 3 giorni, è incredibile”) delle sue esperienze con Bertolucci e Greenaway (“ho trovato che i grandi registi sono più disponibili a cambiare una scena che gli esordienti “), di un film sul carcere appena girato a Roma e di quelli appena presentati nella “Pippeide” di questo festival: “Più buio di mezzanotte“ (in cui è un orrido pappone di ragazzini), “Pulce non c’è“ (interpreta un padre sospetto pedofilo) e “Sangue” il film con Senzani che gli è valso tante polemiche sulla presunta riabilitazione del terrorismo, ma che è in realtà un lavoro sulla morte, dove si mischiano il vissuto dello spegnersi della madre, il narrato delle esecuzioni delle BR, e l’agonia di una città morente, L’Aquila, che inframezza e lega il racconto assolutamente personale – per quando discutibile – di un artista che cerca la sua verità, rubando la vita con l’occhio del cellulare. Se è una rivoluzione linguistica, si vedrà. Per ora, si sa che emoziona e disturba. Certo, non è “carino”.

Per altre info sul festival: www.bobbiofilmfestival.it

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