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Modello new towns o "com’era, dov’era"?

Una interessante proposta operativa dell’economista P. A. Valentino

di Riccardo Tavani

Il modello delle new towns, contrapposto a quello detto per anastilosi, sintetizzabile nell’espressione “dov’era, com’era”, non è che comporti di per se stesso un esito simile a quello aquilano. Pietro Antonio Valentino, docente di Macroeconomia e di Economia del Territorio all’Università “La Sapienza” di Roma, lo ha scritto in un importante saggio di prossima pubblicazione sulla rivista Urbanistica. Più di tre secoli fa, nel 1693 in Val di Noto, in Sicilia, viene elaborato e messo in opera un modello partecipato di nuova città che è entrato a far parte della storia architettonica e urbanistica, oltre che ad aver fatto iscrivere la zona nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco. Nel 1933, dopo il terremoto della Maiella, il fascismo adotta un modello verticistico improntato a efficienza, rapidità di esecuzione e stimolazione economica. Passati i primi contingenti effetti positivi, rimangono quelli strutturalmente negativi in termini sociali, di identità e ambiente locali, con la creazione in molti casi di veri e propri paesi fantasma. Un analogo tipo di scelta ha orientato ora le direttive personali dell’attuale Presidente del Consiglio.

Lo studio di P.A. Valentino riferisce anche di altri esempi più recenti e reca una serie di dettagli e di confronti economici, oltre che un ragguaglio sui principali dati riguardanti i danni dei terremoti in Italia e anche in altre zone del mondo. Dalla sua rigorosa analisi comparativa Valentino fa scaturire un interessante proposta operativa, economicamente non solo compatibile ma in modo incontrovertibile vantaggiosa. Quella della immediata formazione di cantieri teorico-pratici, con compiti sia a lungo che a medio-breve periodo, che riuniscano tutte le intelligenze geo-scientifiche, tecniche, i saperi costruttivi, la conoscenza e la pratica dei materiali locali delle zone a più alto rischio sismico del paese. Fa notare il saggio che le antiche tecniche del feng shui, ovvero di orientamento dei diversi ambienti dell’abitazione a secondo delle caratteristiche energetiche ed orogenetiche locali, oggi tanto rivalutate ed esaltate dall’urbanistica moderna, sono secolarmente adottate dall’architettura vernacolare dei più vecchi borghi italiani. Qui si è “direzionato, colorato e adattato case, strade e piazze ai contesti, sfruttando il clima, l’orografia ed i materiali dei luoghi”. Il fine dei cantieri teorico-operativi è dunque quello di un processo di prevenzione permanente e partecipativo che sappia al contempo (new towns o “com’era, dov’era”) selezionare e rendere prontamente attuabili i migliori interventi possibili in caso di disastro naturale, nel quale non sia stato possibile anticipatamente evacuare le popolazioni.

Questo alla luce anche di due fondamentali considerazioni. La prima è che ormai il disastro cosiddetto naturale non è mai completamente separabile da quello derivante da incuria o cecità umana. La seconda è che come ebbe già a denunciare Ignazio Silone spesso i danni della ricostruzione sono di gran lunga superiori a quelli diretti del terremoto. Soprattutto per il fatto che ormai la frequenza dei terremoti nel nostro è ormai inquadrabile in un ben preciso quadro statistico che Valentino non manca di riportare, denunciando anche la tradizionale viltà culturale e una nuova categoria della mentalità nazionale: quella del fatalismo rovinista che si erge sull’ormai lugubre monumento di lacrime e macerie della nostra fragile struttura territoriale.

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