di Aly Baba Faye
Voglio parlare della paura.
Ancora oggi, nonostante viva in Italia da ventisei anni e sia sposato con una italiana con la quale ho avuto tre figli - cittadini del mondo ma italiani a tutti gli effetti - mi può capitare di vivere una scena come questa: sono sull’autobus e nel prendere posto mi avvicino ad una donna anziana. Questa prontamente si allerta e stringe più forte a sé la borsa.
È un gesto meccanico, automatico, comandato dalla paura.
Io però di questa paura ho rispetto. Perché è un sentimento, legittimo, e come tale non può essere ignorato.
Quello che invece non posso tollerare è che questa reazione emotiva primaria, istintiva, divenga l’unica forma di espressione possibile del “rapporto sentimentale” che lega coloro che arrivano in un luogo a quelli che già da tempo lo abitano.
Quello che non bisogna permettere è che attraverso azioni deliberate e silenzi complici la paura venga strumentalizzata per consolidare progressivamente l’idea di comunità chiuse in guerra contro gli invasori.
So che c’è tanta paura nella testa della gente. So che c’è individualismo e tanto egoismo sociale.
Ma so anche che il passaggio dalla paura alla violenza è breve, troppo breve. E già da tempo stiamo affogando nel parossismo della criminalizzazione del diverso e della violazione reiterata della dignità umana.
I nemici dei “buonisti”, i “cattivisti”, hanno già scritto diversi capitoli del loro romanzo dell’orrore. Hanno iniziato la loro narrazione agitando lo spauracchio del mostro cattivo, ovvero dell’uomo nero. Il ddl sulla sicurezza ne è un esempio. Ma anche qui, qual è stato il punto di partenza? Il tanto legittimo quanto ovvio bisogno di sicurezza che, sia chiaro, riguarda tutti, cittadini italiani e non, e che è stato declinato invece nel binomio immigrazione/sicurezza.
È qui, dunque, che si gioca la partita ed è qui che la sinistra deve intervenire in maniera decisa, per identificare ed elaborare dal basso delle forme convivenza che portino alla nascita di quello che in due parole io chiamo Umanesimo Cosmopolita. Un modello basato sul dialogo tra diversi e sulla contaminazione culturale. Come dice un proverbio africano: l’abbraccio è bello ma quando finisce ciascuno mantiene le sue braccia. Mi auguro che non siamo ancora arrivati a questo punto.