Il racconto dello psicologo Saths Cooper al Congresso Europeo di Psicologia “Nutrire la mente, energia per la vita”, nell’ambito di Expo 2015.
di Clara Costanzo
"Mandela mi ha insegnato la pazienza e mi ha anche insegnato che a volte bisogna ridimensionare le proprie attese, non bruciare i tempi e avere pazienza: i cambiamenti avvengono a piccoli passi". Saths Cooper, attivista del Movimento Anti Apartheid in Sud Africa e psicologo di fama mondiale, presidente della International Union of Psychological Science, è stato ospite del 14° Congresso Europeo di Psicologia a Milano, “Nutrire la mente, energia per la vita”, nell’ambito di Expo 2015.
Cooper ha parlato dell'importanza del cibo e delle connessioni con la psiche, soprattutto in condizioni di povertà ed emergenza e ha raccontato la sua esperienza nel carcere a Robben Island di Cape Town, in Sudafrica, dopo la rivolta studentesca del 1976, insieme a Nelson Mandela. "Ho trascorso –racconta Cooper- nove anni in prigione. Sapevo che mi avrebbero arrestato e per questo ho avuto modo di prepararmi psicologicamente. In carcere eravamo privati dei diritti civili, ero sicuro che non sarei riuscito a fare nulla per evitare quella condizione in cui mi trovavo. Ero un giovane studente e quando mi hanno arrestato avevo solo venti anni come i miei compagni. Lottavamo per i diritti del popolo. La vita in prigione era dura, il cibo ci veniva razionato e molto dipendeva dal colore della tua pelle. Se eri bianco ti veniva riservato un trattamento leggermente migliore, se eri nero le cose peggioravano. Sapevo di dovermi adattare perché dovevo rimanere in prigione tanto tempo. Ed è in quel momento di emergenza che ho compreso davvero che la mente umana è un oggetto meraviglioso. Proprio la mia mente mi ha consentito di farcela e di non crollare. Mi davo coraggio perché non solo dovevo gestire la mente ma anche resistere alle ricadute fisiche che comporta uno stato di detenzione disumano. Le mie idee mi sostenevano. La colazione ci veniva servita la mattina molto presto e consisteva in una pappa di mais e un caffè. Il pranzo veniva servito alle 11, sempre con una pappa di mais. Potevamo cenare alle 18.00 ma sempre con la solita pappa di mais, un po' di pane e qualche verdura. Noi giovani studenti abbiamo anche provato a ribellarci a questo trattamento, costituendo un gruppo di protesta per il diritto al cibo, ma le cose cambiarono solo per poco tempo. Mandela in quel periodo era molto malato e doveva scontare l'ergastolo. Perciò aveva un trattamento leggermente migliore rispetto al nostro. Quando ti manca da mangiare scatta un meccanismo incredibile: il cibo e la forma fisica diventano una ossessione, un pallino fisso. Con Mandela avevamo delle idee diverse su come affrontare la battaglia dei diritti civili e, spesso ci scontravamo sulle rispettive posizioni. Ci ribellavamo contro l'uso dell’afrikaans, non volevamo darla vinta alla minoranza bianca. Preferivamo parlare inglese per non essere compresi dalle guardie che ascoltavano ogni nostro respiro. Mandela non capiva perché noi fossimo così decisi a non cedere sulla lingua, così come non comprendeva come potessimo, noi giovani inermi, combattere contro un sistema così duro per difendere le libertà individuali. Le divergenze con Mandela mi facevano ancora di più apprezzare la sua persona. Ricordo con piacere il tempo passato insieme. Quando ci era concesso, parlavamo tantissimo. Abbiamo anche giocato a tennis, ci era concesso di tanto in tanto. La curiosità che Mandela aveva nei nostri confronti l'ha portato ad ascoltarci molto e noi ascoltavamo lui per capire le sue idee. Alla fine un po' è riuscito a condizionarci ma un po' siamo riusciti a condizionarlo anche noi".