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Giuseppe Di Giacomo commenta Django Unchained e Lincoln

In sala con il filosofo

Giuseppe Di Giacomo commenta Django Unchained e Lincoln

Origine della tragedia nel lontano west del cinema e della Storia

di Riccardo Tavani

C’è un’origine delle cose, come quella della tragedia in Nietzsche, che non rimane cronologicamente sepolta in un punto X del passato, ma che continua a pulsare sotto la pelle viva e a scorrere nella linfa attiva del presente. Il cinema, come pelle, pellicola della storia e dell’attualità, può sensibilmente farci esperire la mobilità operante di un’origine lontana dentro il nostro presente. Per il professore Giuseppe Di Giacomo due film, Django Unchained e Lincoln, proprio ricoprendola dei costumi, degli ambienti e della lingua degli Stati Uniti di metà ‘800, mettono a nudo un’anima originaria non solo tragica e irrisolta ma addirittura esasperata dalla post modernità globalizzante.

Lo sfruttamento schiavistico, il razzismo, le atrocità perpetrate e la guerra civile al fondamento della civiltà dominante sul pianeta, sono, in questi due film, il tema che risuona di spari assordanti, di discorsi storici ma anche delle eco di strazi e urla riverberanti dalla coltre del presente. I due registi, Quentin Tarantino e Steven Spielberg, si trovano perciò a fare i conti con una lacerazione che si presenta loro in termini squisitamente cinematografici. La dimensione tragica ed epica dell’origine è al contempo l’origine stessa del cinema storico e western americano. Una narrazione nel puro canone filologico di “quei tempi” viene così a scontrarsi con la visione antieroica, ironica e disincantata dell’oggi. Tarantino e Spielberg non cercano di aggirare questo contrasto ma lo “montano” dentro la forma cinematografica stessa e lo lasciano agire, risuonare come vero veicolo di senso attuale del racconto. Tarantino sa che dopo l’epoca e l’epica di John Ford c’è stata la polvere arida, senza riscatto degli antieroi solitari di Sam Peckinpah e Sergio Leone. Ai campi lunghi, al piano americano che avvolgeva la missione divina e collettiva dell’eroe epico, nota Di Giacomo, si sostituiscono i piani sequenza, lenti e prolungati, i primi piani del pistolero, le inquadrature che insistono sul dettaglio degli occhi, della bocca, delle labbra spaccate dal sangue e dall’arsura, del cappello intriso dagli aloni di pioggia, fango e sudore, delle dita pronte sul cane e sul grilletto delle Colt. Le inquadrature dall’alto in questo film, invece, marcano distacco dal tratto psicologico, individuale dei personaggi. Tarantino vuole tornare a Ford, orchestrare una dimensione mitica, musicale, wagneriana, facendola già risuonare nei nomi e nelle vicende del dottor King Schultz e di Brumilde, la bella moglie di Django, schiava del brutalmente candido negriero Calvin Candie. Per aggirare Leone ma non far rimbombare di altisonante quanto asfissiante retorica la sua lezione di cinema, Tarantino attinge a una radice più “bastarda” dello spaghetti western italiano, quella di Sergio Corbucci, e se ne serve come elemento ironico, gonfiato a splatter, nello scoppio inverosimile dei colpi di pistola, l’irrealtà fluviale dello scorrere del sangue, l’esplosione fantasmagorica del fuoco e della dinamite. “Tragedia greca e pudica… il gesto definitivo va eseguito dietro le quinte” dice Bobò a Virtù, nella celebre piéce teatrale “Les Negres” di Jean Genet. Il western epico sembra attenersi a questa regola della grande tradizione tragica. Anche nei corpi colpiti dai fucili Winchester non si vede mai il dettaglio degli squarci, dei buchi, delle ustioni sulla pelle e sui vestiti. Tarantino, invece, vi insiste, quasi fossero pezzi delle tele di Alberto Burri, non a caso ispirate proprio alla esperienza del pittore come ufficiale medico sul fronte di guerra. Questa rappresentazione dell’evoluzione al martirio sembra sostituire quella psicologica dell’eroe, la quale non ha luogo e soprattutto non “ha tempo”. In quella forma di epica moderna, che per Di Giacomo è il western classico, la negazione di tempo e individualità costituisce proprio la dimensione divina, collettiva delle gesta eroiche. Poi, con Sam Peckinpah nel cinema, e con Cormac McCarthy in letteratura, lo stesso sfondo naturale dell’impresa comincia prima a oscillare criticamente, poi a virare pessimisticamente dall’epica al romanzo. “Se la sofferenza è troppo intensa, che si riposi nella parola” recita un’altra cruciale battuta de “Les Negres” di Genet. E un film fatto più di parola che di immagine sembra essere quello di Spielberg su Abraham Lincoln. Non che l’immagine sia vacua, nota Di Giacomo, ma ha più una tonalità di accurata ambientazione storica che di autonoma bellezza e forza cinematografica. È una ricostruzione minuziosa, d’atmosfera che serve meglio a far risuonare la parola della “res publica” americana, del suo Parlamento, appunto. Qui, di quegli altisonanti discorsi, si fanno riverberare anche le eco più intime, contrastanti, i bisbigli degli intrighi più opachi, inconfessabili, dai quali pure scaturiscono poi le tavole della Legge. Il marmo su cui sono scolpiti i caratteri legislativi non ha più perciò un fondamento assoluto, divino, mitologico. Così, nota Di Giacomo, la parola di Lincoln non fa mai ricorso in questo film a principi biblici od ontologici. Nello spiegare a due telegrafisti le proprie convinzioni, il Presidente fa riferimento ai criteri di equivalenza della geometria euclidea in analogia a quelli di eguaglianza tra gli uomini. La scienza, però, è aperta a tale incessante azione critica e salti di paradigma da configurarsi come una verità che si fa e si disfa sulla scorta, ormai, di procedure protocollari continuamente abrogate e rielaborate. L’evento storico cardinale della storia americana, ovvero l’abolizione della schiavitù, è dunque fondato su una parola e su una tavola completamente esposte al rischio. Per assurdo proprio la globalizzazione della democrazia e dei diritti umani lo dimostra, attraverso gli attuali processi migratori, detenzioni disumane in centri di identificazione, condizioni di sfruttamento e schiavismo lavorativo. Inoltre, la spinta al riconoscimento delle differenze è oggi drammaticamente più forte di qualsiasi rivendicazione a una integrazione universale ed egualitaria. “Non potrai arrotolare le tue dita attorno ai miei lunghi capelli biondi” dice Virtù a Villaggio, nella battuta finale della pièce di Genet prima richiamata. I suoi capelli sono, vogliono restare neri e crespi e come tali non solo riconosciuti ma adorati. Non più il riconoscimento a un a parità di diritti ma ad una specificità anche a scapito di quei diritti egualitari, fondati per via non ontologica ma ipoteticamente, rischiosamente euclidea proprio dalla azione di Lincoln. Di Giacomo ricorda come Jean Baudrillard avesse avvertito che la globalizzazione all'omologazione americana fosse una delle ragioni alla base dell'azione terroristica mondiale contro gli Usa. Quella lacerazione storica, antropologica, sociale continua dunque a pulsare sotto la scorza caotica di un presente irriconciliato e irriconciliabile, nel quale la bellezza delle immagini di un film, come di ogni altra opera d'arte suonerebbe falsa e ingannatrice. Virgilio, ricorda Di Giacomo, al termine della sua vicenda esistenziale vuole dare alle fiamme il suo capolavoro, l'Eneide, non perché fosse brutta ma, al contrario, proprio perché troppo bella in un mondo d'orrore. Così Spielberg fa un film di montaggio della parola irrisolta nell'immagine solo esteriormente compiuta e Tarantino conduce il suo eroe wagneriano alla liberazione di Brumilde e alla vittoria attraverso una ironica quanto pirotecnica esplosione finale che riempie e fa saltare al contempo tutto lo schermo nel frastuono mitopoietico della sua rappresentazione western.