A Rovito (Cosenza) per il nono incontro del ciclo Ombre sonore. Storie di musica attraverso il cinema, la rassegna ideata da Ugo G. Caruso e Giuseppe Scarpelli mercoledì 22 ore 20.45 e’ in programma Searching for Sugar Man, il documentario anglo-svedese di Malik Bendjelloul, vincitore dell’Oscar 2013 per il miglior documentario. Ugo G. Caruso nel presentare il film racconta la sua esperienza di spettatore allo straordinario concerto romano di Rodriguez al Circolo degli Artisti nel 2009.
A nessuno si attaglia meglio il proverbio “Nemo propheta in patria” più che a Sixto Rodriguez, il più insolito successo nella storia della musica. Lo scoprono in un bar di Detroit, alla fine degli anni Sessanta, due produttori convinti d'aver trovato il profeta di una generazione, una sorta di Bob Dylan ispanico. Avevano ragione, ma il pubblico non se ne accorge: il primo disco di Rodriguez è un capolavoro ma anche un fiasco. Negli USA. Ma nel Sud Africa dell'Apartheid, dove arriva clandestinamente, Rodriguez diventa una leggenda, la sua musica la colonna sonora di una generazione in lotta. All'insaputa dell'autore, che si ritira dalle scene. Finché, trent'anni dopo, due fan decidono di mettersi sulle sue tracce, scoprire che fine ha fatto e cosa è andato storto.
Searching for Sugar Man è il racconto di una vicenda straordinaria che parla del riscatto e della forza della musica.
Quella notte che Rodriguez apparve sulla Casilina
di Ugo G. Caruso
Rodriguez, chi era costui? I giornali romani del 3 giugno 2009 riprendendo le anticipazioni dei loro supplementi di qualche giorno prima, segnalavano come imperdibile il concerto in programma la stessa sera al Circolo degli artisti a partire dalle 22.30, unica data italiana. Unanimemente concordi nell'enfatizzare l'evento, non riuscivano però a darne una descrizione attendibile e convincente. Ero perplesso: qualcuno scriveva di Detroit sound, altri di soul psichedelico, altri ancora parlavano di rock della West Coast ma c'era pure chi coniava la definizione di “Dylan chicano”. Un ritratto davvero incongruente e disorientante. Era chiaro che di fronte alle scarne note ricevute dall'ufficio stampa del tour ciascuno si era arrangiato alla bell'e meglio, saccheggiando il web senza discernimento e soprattutto senza dati di prima mano. Ma anziché farmi prendere dal timore di assistere ad un concerto noioso, scadente o semplicemente lontano dai miei gusti, sempre più incuriosito da quegli indizi discordanti, andai a consultare un po' di repertori stipati all'inverosimile nei miei scaffali, compreso un paio in inglese che avrebbero dovuto far luce. E invece niente! Non un rigo, non esisteva neppure la voce Rodriguez. Come poteva essere imperdibile l'esibizione di un artista sconosciuto all'universo mondo? Non mi diedi per vinto. Sui giornali si faceva riferimento agli esordi avvenuti nel 1970, all'indomani quindi di quella che ritenevo senza dubbio la stagione più creativamente fervida di sempre. Decisi allora di sentire a riguardo un paio di amici, appassionati incalliti della prima ora e grandi collezionisti di dischi, che per ragioni anagrafiche ebbero la fortuna di vivere appieno quegli anni in cui io, pur con gli occhi spalancati costantemente sul mondo, mi trovavo a metà del guado tra infanzia ed adolescenza. Ebbene, nada de nada, non ricavai nulla da loro oltre ad un vago senso di scetticismo per l’evento in questione. Stavo dunque per buttar via una serata, vittima della propaganda di un management cialtrone che spacciava per ineludibile lo show di un suonatore di terza fila o, peggio, di uno scaltro revivalista posticcio che si pretendeva protagonista di primo piano? E se invece mi fossi perso un concerto prezioso, un appuntamento originale ed irripetibile? Quel dubbio mi disturbò per tutto il pomeriggio. Poi mi dissi che il peggio che poteva capitarmi era di imbattermi in un anonimo emulo di quei suoi illustri concittadini, ovvero gli artisti della Motown di Berry Gordy per i quali avevo da sempre un debole particolare (Smokey Robinson and The Miracles, Marvin Gaye, The Supremes, The Temptestions, The Four Tops, Martha Reeves and The Vandellas, Gladis Knight & The Pipes, Stevie Wonder, etc.). Ma quella era musica nera anche se piaceva pure ai bianchi. Perché mai un messicano, sebbene cittadino della Motor city, avrebbe dovuto ispirarsi al Detroit sound? E chi mi garantiva che non fosse invece un seguace di Iggy Pop and The Stooges, anche loro glorie cittadine ma su tutt'altro versante musicale? Alla fine decisi di rischiare. In fondo cosa sarebbe stata mai una serata deludente? Comunque, per scongiurare l’ipotesi di un bilancio serale totalmente negativo me ne andai prima al cinema, in una sala del quartiere Salario-Trieste. Poi intorno alle 22.30, dopo aver incamerato un film, presi la tangenziale in direzione sudest, trafficata come può esserlo in una notte d’estate. Parcheggiai nella zona di Villa Fiorelli e m’incamminai a piedi verso la Casilina vecchia. Giunto al Circolo degli artisti appresi con disappunto che il concerto avrebbe avuto luogo al chiuso e non nei giardini poiché la serata era ritenuta insolitamente fresca per la stagione, insomma da pullover di filo sulle spalle. Maledetta pusillanime ria italiana, mi dissi. Questo voleva dire doversi ammassare in un rettangolo di cemento senza finestre e soprattutto dare l’addio alla pipa. Sul palco suonavano già i supporter El Cijo, una band marchigiana di country rock quando decisi di farmi un’ultima fumata di pipa all’aperto. Fu allora che vidi Rodriguez attraversare il giardino accompagnato da una donna più giovane che poi scoprii essere sua figlia. Quegli occhiali scuri e i lineamenti ispanici mi fecero pensare per un attimo a Josè Feliciano, ascoltato dal vico in uno stadio una decina d’anni prima. Ma Rodriguez era più scuro, più “ indio” e aveva i capelli più lunghi calati sul viso. Sembrava uno di quei messicani degli spaghetti western destinato ad essere fatto secco alla prima sparatoria. Non avrebbe sfigurato neppure in un film di Sam Peckinpah. I ragazzi che lo accompagnavano in tour erano quattro svedesi scelti da lui. Salirono on stage intorno alle 23.30. La scaletta dei brani è poggiata su un tavolino insieme ad una bottiglietta d’acqua minerale e ad un calice di vino. Rodriguez iniziò a cantare ma la chitarra era “spenta”. Per la sala si diffuse un senso di imbarazzo. Mi dissi che non era proprio serata. Poi partì la musica. E immediatamente, come d’incanto ci sentimmo trasportare in un’altra dimensione temporale, un’atmosfera che ci era familiare ma che per la prima volta percepimmo come tridimensionalmente. Rodriguez sciorinò l’uno dopo l’altro i pochi brani contenuti nei suoi unici due dischi, un repertorio evocativo e di grande impatto che ti restava impresso immediatamente: I wonder, Crucify your mind, Sugar man, A most disgustino song, Street boy, Cause, Inner City Blues (l’unica che riconobbi per la versione di Marvin Gaye), Can’t get away e varie altre. La sala cominciò a riscaldarsi, in breve a ribollire, alla fine andò in visibilio. Non eravamo più di 70-80 spettatori ma ci guardammo con la consapevolezza e la soddisfazione di chi sa di aver appena assistito a qualcosa di memorabile. Uscendo intorno all’una e trenta dal Circolo degli artisti, tornai a casa alquanto esaltato ed ansioso di raccontare l’esperienza appena fatta agli amici scettici e prudenti che l’avevano snobbata. In effetti, chi avrebbe mai detto che quelle canzoni, sconosciute in America dove furono composte, erano divenute altrettanti inni nel remoto Sud Africa per la generazione che aveva posto fine all’apartheid? L’avremmo scoperto solo quattro anni dopo quando leggemmo del successo di Searching for Sugar Man. Non avevo però ben compreso chi fosse il protagonista della storia. Restai sbalordito quando rividi Rodriguez sullo schermo e idealmente incorniciai quella serata del 2009 in cui ero stato tra i pochi (fortunati ma anche audaci) in Italia, anzi direi in Europa, a vederlo dal vivo.