You are here

Il neorealismo magico e il miracolo di Kaurismäki

di Riccardo Tavani

Lustratevi le scarpe prima di andare a vedere questo film, ovvero prima di entrare in questa favola di lustrascarpe e gente minuta dai grandi sentimenti. A che epoca si rifaceva il C'era una volta delle nostre vecchie favole? A un'epoca indeterminata nel lontano passato. Quella di Kaurismäki, invece, oscilla tra il presente di bruciante attualità dell'immigrazione clandestina e il passato prossimo degli anni '50 – '60 dello scorso secolo, come “sistema d'immagine” dell'intero film.

Per “sistema d'immagine” si intende quella cifra stilistica che si sedimenta e si accresce discretamente in ogni sequenza, fino a una saturazione delle immagini che è il senso più autentico del film, ben oltre la trama narrativa. Tutto è di quegli anni 50 – '60: case, baracche, negozietti, bar, mosche da bar, bottiglie, vestiti, auto, bus, ospedali, medici, infermiere, musica, musicisti, telefoni. Si vede un solo telefonino e per pochi secondi: quello di un delatore che chiama la polizia per far arrestare un ragazzo immigrato. E anche le scarpe sono di oggi: da ginnastica, scamosciate, difficili se non impossibili da lustrare. Inoltre c'è l'ambiente di ingresso a un centro di immigrati a Calais, con bip, cellule elettroniche, tesserini magnetici, tornelli, ecc. Il C'era una volta e il “sistema d'immagine” vengono consapevolmente sgarrati, affinché sotto la pelle della fabula appaia quella ulcerata del presente reale. Il lustrascarpe si chiama Marcel Marx, la moglie Arletty, il ragazzino fuggiasco nero Idrissa. Arletty finisce in ospedale con un tumore incurabile (ma Marcel non lo sa) quando Idrissa si nasconde in un ripostiglio esterno della loro casa adibito a cuccia per il cane Laika. Uno strano commissario, di nome Monet, lo sta cercando, perché la sua fuga ha fatto scalpore, è finita sui giornali e il Prefetto di Le Havre lo vuole riacciuffare a tutti i costi. Marcel è stato anche lui una specie di fuggiasco in patria, clochard di lungo e onorato corso, cui Arletty ha dato il rifugio di una casa e di un affetto negli ultimi anni. Non ci pensa neanche un istante a dare anche lui rifugio al ragazzo africano. Ma non gli dà solo rifugio e protezione nella sua casa. No, glielo lo dà in quell'ambiente, in quella favola da Miracolo a Milano, in cui la gente per condizioni di vita e sentimenti era più vicina a quella degli attuali immigrati. Entra qui in gioco una sorta di neorealismo magico, favolistico, perché l'ambientazione, l'atmosfera è quella tipica di quel cinema, ma Kaurismäki la usa per raccontare una favola, senza nasconderlo, ovvero dicendocelo scopertamente che ci sta raccontando una fiaba e non la realtà che fa apparire in improvvisi, squarci, sgarri sulla superficie della celluloide. Se non ce lo dicesse ci ingannerebbe, perché si potrebbe pensare che il mondo di oggi è davvero così, con povera gente ricca di sentimenti, pronta ad aiutare un povero ragazzo sbattuto dalla deriva della fame nei continenti in un freddo porto d'Europa. L'autore, invece, ci sta raccontando quella favola che di noi narra, così come eravamo fino ad appena mezzo secolo fa; di quale semplicità, linearità, spontaneità di gesti concreti ci caratterizzava verso gli altri sofferenti simili a noi. E forse tutti ci comporteremmo come quel lustrascarpe, quella fornaia, quel fruttivendolo, barista, pescatore, vecchio rocchettaro, e persino quel burbero commissario Monet nei confronti dei tanti Idrissa in cui ci imbattiamo quotidianamente. Così anche l'uso dei mezzi cinematografici di Kaurismäki si intona a quella preziosa parsimonia che si satura di una potente povertà poetica, raggiunta non tramite dispendio economico e tecnico ma ricorrendo alla progressiva sedimentazione del suo peculiare “sistema d'immagine”. Il miracolo sarebbe tornare a quella Le Havre, a quella Milano, a quel calore senza stufa, a quella nebbia diafana sulle banchine, in cui penetra uno spiraglio di sole e un improvviso ciliegio fiorisce rigoglioso, proprio davanti la porta dietro cui Idrissa si nascondeva e dormiva insieme al cane. Fronte del porto con ciliegio in fiore: il fior fiore di una fiaba, di un remoto, vicinissimo C'era una volta.