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Giuseppe di Giacomo commenta il film di Calin Netzer

Il caso Kerenes

La relazione negata di ragione-emozione e il perdono incondizionale di Derrida

di Riccardo Tavani

La razionalità si presenta a volte come un aspetto patologico dell’emotività. Cornelia Kerenes, una cinquantenne della moderna borghesia romena, soffre per la perdita di controllo sul figlio trentenne Barbu. Questi, all’opposto, fa del tutto per scrollarsi di dosso anche la più flebile ombra della presenza materna e per contraddirla in tutti gli aspetti della loro relazione. Cornelia ha scarsa stima di quel solido ma disadorno professionista che è suo marito Domnul, e sottopone la loro domestica, che svolge servizio anche in casa di Barbu, ad asfissianti interrogatori sulla vita che lui conduce con Carmen, una donna divorziata con la quale il giovane convive. Barbu ha maturato un carattere irascibile, scostante, capace solo di arroccamenti e fuga dalle responsabilità e questo si riflette anche nel suo rapporto con Carmen.

Logos, razionalità, contra umoralità viscerale, caotica, spiega Giuseppe Di Giacomo, il quale nota come, in realtà, il regista del film restituisca i contorni di questo quadrilatero familiare attraverso l’uso costante di primi piani sui volti dei personaggi. Un tipo di inquadratura che tende a farci sentire, renderci partecipi diretti dell’esperienza del personaggio, ma che nello stesso tempo vuole essere razionalmente analitica, fin nelle minime lentiggini psicologiche. E dunque è l’immagine stessa che diventa sede di questa tensione, di tale sorta di dialettica dell’illuminismo – per dirla con Horckheimer ed Adorno - nella quale razionalità ed emotività si presentano non come opposizione ma come inscindibile polarità, relazione.

Tale, per Di Giacomo, è solo l’antefatto ambientale e familiare, il prologo (ovvero pro-logos) che precede la tragedia. Questa prende corpo all’improvviso, per un caso che si presenta come puramente accidentale, ed esattamente negli stessi termini del film del 1969, Un certo giorno di Ermanno Olmi. In un incidente stradale Barbu investe e uccide un ragazzino, figlio di una famiglia contadina (nel film di Olmi veniva ucciso un povero operaio). Da questo momento il quadro si allarga. Il dramma da familiare si fa sociale. La famiglia Kerenes, guidata dall’ammiraglia Cornelia e arricchita dalla presenza di una influente e pragmatica zia, mobilita tutta la sua forza di classe per salvare Barbu dalle gravi conseguenze nelle quali l’incidente lo precipita. Pressioni sulla polizia, correzione di dichiarazioni iniziali e verbali, sostanzioso esborso di danaro per ottenere testimonianze che abbassino l’alta velocità con la quale procedeva l’auto di Barbu. Per Cornelia è anche un’occasione preziosa per ristabilire definitivamente il controllo e il dominio emotivo sul figlio.

La razionalità, il logos, la parola, il discorso si fanno, nell’ambientazione geografica e politica del film, strumento della nuova borghesia romena sorta dopo la caduta della satrapia di Ceaesescu. Ragione strumentale la chiamano, infatti, Horckheimer ed Adorno, e questo, per Di Giacomo, è un elemento che conferisce alla pellicola un valore più universale.

Il tentativo di Cornelia di ridurre anche il più piccolo dettaglio alla macchina infallibile del suo sistema logico, arriva al nodo del funerale del ragazzino ucciso. I Kerenes devono farsi carico delle spese e offrire alla famiglia una cifra adeguata, ovvero calcolata razionalmente ai prezzi del mercato locale per le zone di periferia. Ma non basta. Barbu deve personalmente compiere una visita alla famiglia della vittima per mostrare dolore, contrizione. Come per un riflesso condizionato, il figlio si scaglia immediatamente contro la trovata della madre, dicendo che lui non ha nulla da dire a quella gente e non saprebbe, d’altronde, neanche come dirlo. Immediatamente esprime un’inconciliabile opposizione, ma in realtà, ricorda Di Giacomo, noi abbiamo visto che c’è una stretta relazione tra il razionale materno e il viscerale caotico del figlio.

Il Suv guidato da Cornelia, con bordo anche suo figlio, esce dalla città e raggiunge la povera casa di campagna dove vive la famiglia contadina colpita dal lutto. Al rifiuto di Barbu di scendere dall’auto, è ancora una volta la madre a farsi carico della situazione. Cornelia, appassionata di teatro, entra tra quelle mura domestiche, come sulla skenè, sulla scena di un’antica tragedia greca, e intona, con accenti drammatici e dolenti, la monodía del suo logos verso la desolata e pietrificata cavea della famiglia che ascolta.

Ci sono, però, si domanda Di Giacomo, parole, discorsi appropriati ad abbattere la barriera di irredimibile dolore e tali da far scaturire spontaneamente il per-dono, ovvero un atto, un dono completamente gratuito, che non presuppone condizioni e non aspira ad alcuna contropartita?

Derrida afferma che il perdono è tale solo quando perdona l’inespiabile, ovvero ciò che in nessun modo potrebbe essere perdonato. Lo chiama incondizionale, distinguendolo da quello condizionale, basato sul logos dello scambio. Anzi, è esattamente la logica di tale economia che il vero perdono infrange, attingendo a un che di più originariamente tragico nell’uomo, nel senso – aggiunge Di Giacomo – di quanto inteso da Nietzsche proprio ne La nascita della tragedia.

Non è più l’inquadratura in primo piano, la vicinanza ma la distanza, la visione indiretta a dominare tutta l’ultima scena, l’esodo, ovvero ciò che nella tragedia era lo scioglimento, il finale. Il figlio scende dall’auto, mentre la madre vi risale. Cornelia vede attraverso lo specchietto retrovisore Barbu andare verso il contadino rimasto sul limitare della casa. Si fa molto vicino a lui, abbassa il capo, e incapace di alcuna parola, gli sfiora appena una mano con le sue dita. L’uomo ricambia il gesto: l’espressione di dolore che si accentua sul suo viso diventa quasi uno scioglimento nel pianto.

Tutto avviene nel silenzio: ogni discorso, anche come riflesso di supremazia sociale, tace. La morte, il dolore non si spiegano, si partecipano. Due uomini si testimoniano questo in modo fisicamente, emotivamente partecipativo, nella nudità originaria del loro dolore. Il titolo originale del film è Pozitia Copilului, ovvero la Posizione del bambino. Attraverso lo specchietto retrovisore Cornelia osserva la distanza tra sé e la grandezza quasi impercettibile del gesto imprevedibile e indipendente del suo bambino. Il logos crede di marcare definitivamente uno stacco, come superamento del pathos ma – richiama Di Giacomo – è solo nel riconoscimento dialettico, relazionale del pathos, e non nella sua negazione, che la ragione può uscire dalla sua sindrome strumentale, dalla sua patologica presunzione di controllo e dominio sull’uomo, sulla natura, della quale è figlia, non madre. 

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