You are here

Sangue, un film sulla morte come sacramento folle

Doppio giro di vite nel cinema come poema di Pippo Delbono

di Riccardo Tavani

Si dovrebbe guardare al cinema di Pippo Delbono come a un unico spazio poetico-narrativo, fatto di canti, proprio come in un poema. Questo di Sangue è fin qui il canto più scabroso, sia per il tema-girone in cui ci fa scendere, sia per le due figure che ci mette nella carne viva e negli occhi. Il tema di questa cantica è quello della morte. La prima figura è la vecchia madre del poeta, che e-sangue scivola, prima bisbigliante poi sempre più muta, dal letto di casa a quello d’ospedale, all’esposizione nella camera mortuaria, al gorgo meticolosamente piombato di una bara. La seconda figura è quella visceralmente repulsiva nell’inconscio pubblico, ancora oggi, di Giovanni Senzani. Capo delle Brigate Rosse nel sangue acceso del suo capitolo finale, è responsabile anche dell’esecuzione di Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio, in un luogo desolato e sporco della periferia romana.

Al tema per sé già scabroso della morte, viene aggiunto, dunque, un lacerante doppio giro di vite. Delbono, infatti, filma, e mette poi sulla scena pubblica di uno schermo cinematografico l’osceno spogliarsi, denudarsi del sangue e di se stesso dell’essere umano – e di quel particolare, ancestrale umano che è la madre – e rida sangue e voce, nelle stesse immagini e parole, alla memoria di chi ha decretato efferata morte. Questa doppia scelta drammatica è altrettanto visceralmente contestata a Delbono. Ci domandiamo, però, al di là delle motivazioni e intenzioni dell’autore – che non dobbiamo e vogliamo per forza conoscere –, se più pornografico eticamente ed esteticamente insopportabile non sarebbe proprio stato un canto poeticamente patetico della morte, sia nel suo aspetto più intimo che in quello dello spazio civile, della res publica.

Quale autentico poema può subdolamente occultare un suo lato, un suo canto rischiosamente più scosceso? Il poeta ci mette davanti all’osceno abissale che la morte è per la coscienza e la ragione dell’Occidente, tessendolo anche dei riverberi poetici e filosofici dell’Oriente, nella fattispecie del Buddismo. Il poeta può, deve emettere il grido, l’urlo – ci dice Delbono –, così come Munch può dipingerlo sulla sua tela. L’urlo della morte impartita come sacramento folle, che torna ricorsivo nel dormiveglia di Senzani nell’alba livida della coscienza. Non chiedetene al poeta la ragione, l’interpretazione dell’urlo.

Delbono sceglie qui una delle vie più ostiche e abrasive di mostrare-testimoniare cosa sia davvero, per la nostra visione-cultura, la morte. E lo fa sulla propria pelle, nel vivo della propria carne e sangue, perché i nostri paradigmi ottico-interpretativi, siano drasticamente messi di fronte alla sua verità non pateticamente aggirabile ed edulcorabile. La forza che sanno esprimere le immagini e la voce, il pensiero danzante, poetante di Pippo Del Bono, in questo come nei suoi precedenti canti filmici, è tale da poter riunire attorno a sé una comunità di senzienti e di aprire una nuova possibilità, una nuova speranza al significato del cinema come spazio del co-sentire e dello stare insieme.